I Cosmonauti – Prefazione di Matteo Marchesini

Foto di: www.flickr.com/photos/parentibrambilla/

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Aprire questo libro significa ritrovarsi ex abrupto in un mondo che ci appare straniero o addirittura esotico proprio perché spesso lo abitiamo senza accorgercene: quello delle più tipiche e insieme anonime province italiane. Diciamo esotico, straniero: ma mai pittoresco. Perché lo sguardo che lo inquadra non è quello del narratore-reportagista, coi suoi amori volubili di una sera e il suo estetismo appena velato dalla concretezza della cronaca. Al contrario, Ghazvinizadeh gioca a immaginare e mettere in scena il divario tra chi osserva queste province di passaggio e chi ci vive dentro, e dunque non vede più, come non può vedere sé stesso, gli scorci eccentrici e le insegne bislacche, i gerghi della tribù e le abitudini famigliari.

Nei Cosmonauti si riflette l’Italia più dimenticabile non perché simile a un non-luogo ma semmai a un luogo-tutto, cioè a una serie di spazi che in apparenza – solo in apparenza – potrebbero essere ovunque. Come crescerà chi trascorre l’infanzia nelle golene di un immaginario e realissimo Alto Monferrato? Che differenza c’è tra gli uomini che guardano il fiume dalla riva e quelli che ne conoscono le acque, tra chi abita i casolari cinti dalle piene e chi scende lì ogni giorno dalle colline dello spumante? Cosa succede se un ligure, abituato a considerare ogni sbalzo tra i suoi monti un marchio d’appartenenza, approda sull’Appennino bolognese, circondato dall’indifferenza di una cupa anonimia immobiliare? E di cosa campano certi hotel sempre vuoti, su una statale forse del basso Lazio, col mare vicino ma non abbastanza, e con un odore perenne di grissini in confezione e legno vivo? E’ di immedesimazioni del genere che si nutre lo scarno libro di Ghazvinizadeh. Il paesaggio italiano ci sta qui davanti come una gigantesca madeleine, nella sua friabilità minacciosa e nel suo miscuglio lunare di tecnologia e relitti arcaici, di viadotti e pievi, di bar e monumenti resistenziali: e per non si sa quale magia o forza implicita, poche pagine spigolose bastano all’autore per evocare intorno al suo profilo la carne di un romanzo arioso, di una memoria vastissima.

Lo si vede bene nel primo racconto, I cosmonauti, dove si descrive l’immedicabile fine dell’adolescenza che tocca ai ragazzi di via del Salto, destinati a disperdersi e poi a riunirsi per scoprire di aver vissuto diversamente anche il tempo mitico che si credeva comune, di aver tradito la promessa di avanzare in gruppo verso il mondo grande. Nel secondo racconto, invece, la solitudine è già un apriori: il diario di Un prete a Ripoli è quello di un sacerdote che dalla sua Liguria arriva tra i calanchi e le varianti di valico bolognesi e trova un popolo accampato, una serie di enclave di “nomadi sedentari” difficili da identificare con una comunità. Col terzo pezzo, Medicamenti antichi, le solitudini si moltiplicano. L’uno all’altro sconosciuti, un talent scout di calciatori, un sindacalista, e un medico assediato dal ricordo del suo odiato Polesine, cenano in un albergo vuoto, a tavoli distanti, finché la notte li costringe a cercare una via di fuga per anestetizzare le rispettive ossessioni. E qui viene a galla un tema già alluso nella forma mentis del narratore dei Cosmonauti, che vorrebbe essere ubiquo e osservare le esistenze circostanti come la sezione di un condominio: è il tema dell’ansia di controllo, della razionalizzazione eccessiva che porta questi personaggi alla soglia del panico, e li induce poi a elaborare continue tattiche divagatorie per tenere a bada i fantasmi e restaurare i più sani riflessi involontari.

Tutto ciò è restituito con una originalità di sguardo che non teme confronti. Il libro che avete tra le mani, infatti, non somiglia a niente se non in superficie. Notevole scrittore di versi e narratore strofico con la vocazione dell’antropologo e dell’urbanista, Ghazvinizadeh non viene dalla letteratura, non la ama, non la segue. Ma siccome ha passato molto tempo a ragionare con sottigliezza sui massimi sistemi e sui minimi, diabolici dettagli di realtà assai diverse tra loro, nello scheletro esile della sua prosa ci rimette spontaneamente faccia a faccia con alcuni luoghi fondamentali della cultura moderna. Al di là di certo “silenzioso”, perentorio oggettivismo stilistico, che fa quasi pensare agli anni Sessanta o Settanta di Handke, i problemi di questo scrittore non letterato sono a volte proprio i problemi della letteratura più letterata e quindi lontana da lui, magari perfino di quella proustiana. Insistendo sul ruolo fantastico di nomi e toponimi, Ghazvinizadeh analizza infatti acutissimamente i modi in cui mistifichiamo la nostra identità fino a dimenticarci della mistificazione, i modi in cui l’immaginazione disloca tempi e luoghi, e in cui i tempi e i luoghi modificano a ogni istante l’intero passato e il presente; ma soprattutto ci racconta benissimo come, mentre una nuova luce spaziotemporale ci piove addosso trascinando con sé tutti i contorni, la nostra mente continua a misurare un mondo che non esiste più. E’ sempre da queste analisi, e dunque con estremo pudore, che emergono le tonalità emotive di fondo: la nostalgia, la gelosia, lo spaesamento.

Non va infine sottovalutata, in un autore non iperletterario ma di certo intellettualistico, la forma complessiva di queste tre apparenti monadi, che in realtà sono tre pannelli organizzati in una sapiente partitura. Si comincia da un ritorno al paese (I cosmonauti), si continua con un arrivo in terra straniera (Un prete a Ripoli), e si conclude con una sosta, una malinconica stasi (Medicamenti antichi). Oppure, ad altro livello: abbiamo prima un quadro di giovinezza collettiva, poi una iniziazione individuale, infine uno sparuto coro elegiaco che celebra la solitudine della maturità. Ed è significativo che a questo percorso corrispondano tre differenti tipi di narratori: un primo io che riprende la realtà come un regista, un secondo che la testimonia con un diario, e un terzo che la reinventa in forme obliquamente demiurgiche.

Matteo Marchesini