Metropoli

Nei caffè, lontano dai prati
pensavamo per ore
pensavamo, fumavamo quando si poteva
dopo l’ultima città, soltanto neve
chi parla alla radio in Germania
sembra un uomo solo in una stanza
siamo emigranti, siamo colti
sappiamo il mal di testa di non farsi capire
di essere eleganti, di vestire male
e di bere caldo.

Nader Ghazvinizadeh, Metropoli, Edizioni CFR, Sondrio, 2011 

Metropoli

Recensione di Federica Mantellassi del 15/01/2014 da Comune di Campi Bisenzio:

La pubblicazione di questo quaderno nasce dal riconoscimento, da parte della giuria del premio Fortini, del valore della ricerca linguistica e poetica di Nader Ghazvinizadeh, che racconta il rapporto fra la Città e il suo Altrove (i campi, il paese, la spiaggia, il mare, il fiume), scegliendo i modi del parlato e l’attenzione per la quotidianità – talora solenne – delle azioni (prendere da bere in un bar vuoto, rincasare, dormire di giorno su un letto disfatto). Le tante città (fucina, caldaia, voliera, granaio…) si compongono in un’unica Metropoli fatta di polvere e calce, in costruzione, vuota, notturna, piovosa, dilagante fuori dalle case, che vive la sua edificazione e il suo disfacimento in un tempo mai finito. Uomini e donne attraversano gli spazi urbani come “scrosci di gente nera”, forme anonime, fantasmi, ombre che tuttavia diventano corpi quando abitano i ricordi, i paesaggi, i luoghi della vita familiare e sociale.
Una poesia fondata sullo sguardo, che procede per inquadrature, sequenze, dettagli, ma nelle immagini pulsa la concretezza di una umanità che, come il solitario occupante della casa al mare, “si tuffa con muto coraggio” per incessantemente tornare.

Recensione di Nunzio Festa del 12 aprile 2011 da KULTUNDERGROUND:

Il Premio Fortini si rivela esempio di luogo da dove ci s’accorge dell’esistenza di poeti da considerare e riconsiderare. Infatti sappiamo di Nader Ghazvinizadeh, che come spiega addirittura l’editore non è poeta migrante ma poeta civile e basta, grazie alla silloge “Metropoli” pubblicata in virtù della vittoria (appunto d’una pubblicazione) proprio del Fortini, a mo’ d’omaggio. La silloge c’ha molto affascinato in quanto, saremo chiari, d’impatto pensavamo di trattasse d’altro materiale. O d’altra materia. Comunque acremente accattivante. Il punto invece è che entrando in questa piccola summa’ troviamo la grazia d’una sperimentazione che vede il linguaggio della fatica in stanza d’urbanizzazione misurarsi perfettamente con la stanchezza d’una velocità di lingua, la stessa, che dovrebbe essere accantonata ma per annullare l’ipotesi dello straniamento dalla musicalità, ma di più dall’enjambement. Piccolo esempio: “La donna viene con l’uomo cane / che scambia il ventre con l’otre / viene la fame e il nebbione / la sera il lago si fa di marmo / e comincia la cucina che nega l’acqua / e giustifica il vino / la donna esce, disfa l’acqua col remo / fluida l’infelicità nelle pance della città”. Il timbro, che esalta un tono apparentemente piano, sfoglia il gemere dei contenuti, qui e sempre di poesia sociale, dove è chiaro che l’obiettivo è quello di raggiungere un nuovo clima che trapassa e trapassi sia la famigliarità solite delle persone – protagonisti – sia il tenue andirivieni d’una quotidianità che la città pone in suggerimento di rassegnazione per lo stesso soggetto vivente dei versi. Nader Ghazvinizadeh riesce a tenere insieme il filo della rivelazione d’un’ulteriore spaesamento dovuto all’urbanizzazione praticamente forzata e ai dettagli dei vari problemi accomunanti le sofferenze d’interiorità e di corporeità, con il gomitolo della versificazione che è essa stessa descrizione, passateci il termine greve, della disomogeneità di queste tante e diverse esistenze comunque e possibilmente al margine. Il poeta dichiara la sua resistenza alla deflagrazione, per aggiungere, quando punta il naso su Bologna e riserva alla capitale del voluttuoso un’immagine perfettamente in decadenza. Però, in limine, con possibilità di riscatto. Spiraglio che da tutte le poesie, rileggendo persino, s’intravede. O appare. E le metropoli sono da rivisitare.

Da Blanc de ta nuque, uno sguardo sulla poesia italiana contemporanea, recensione del 20 aprile 2012:

In un’atmosfera da Blade Runner, ma meno drammaticamente tesa e con un finale che sposta la morte altrove (“la morte è in campagna”), Metropoli di Nader Ghazvinizadeh (edizioni cfr – poiein, 2011) è un libro forse debitore – oltre che del cinema – anche delle città invisibili, che qui sono tutte contenute nei labirinti di Bologna, laddove in Calvino era Venezia il centro di ogni tentativo di mappatura. Ghazvinizadeh, di scena in scena, colleziona città d’ogni fattura: città-cosmo, città-piromani, caldaia, città-fabbrica e “dei muratori”, città d’acqua e città-voliera, città-granai, tutte raccontate in un cielo “livido e plumbeo”, dove angoscia, inquietudine e vuoto popolano gli animi di uomini grigi, che spesso bevono per non vedere. C’è tuttavia un altrove, fatto di sabbia e mare e fiumi, una città-rifugio, luogo della memoria, che assomiglia al delta del Po, dove “in mezzo al fiume c’è il paese con le piazze al vento”, ma anche, nel contempo, luogo che spaventa: troppo vasto per noi che “ci perdiamo nei bicchieri d’acqua”. Metropoli è un bel libro perché nomina scorci di paesaggio urbano, scegliendone gli aspetti emblematici, quelli che parlano da soli, senza bisogno di un commento, di un monito; scorci a volte resi nella deformazione metaforica (i contadini in bicicletta che diventano “cani lupo piegati sui manubri”) o che agganciano scene dell’immaginario collettivo (quel “mettere le mani in tasca e stringere le spalle” che ricorda James Dean nel ritratto di Dennis Stock). In entrambi gli esempi è chiara l’origine visiva, cinematografica, della poesia di Ghazvinizadeh, e la sua radice drammatica, di giovane che brucia. Ancora Dean e la movida bolognese già tuttavia corrotta dal sentimento che dietro le apparenze c’è il nulla, come aveva scritto Montale in Forse un mattino andando, e che in Metropoli diventa “chi ha sofferto mantiene il segreto”: uno scarto dall’ontologico all’esistenziale, da una generazione che cercava ancora il senso dell’essere ad un’altra che cerca una ragione per non essere. E intanto vive, ama, scrive.

Dal sito TRANSITI POETICI, articolo del 9 settembre 2012, “Il poeta Nader Ghazvinizadeh in una nota di Narda Fattori”:

E’ l’opera che ha vinto il 3° premio al concorso Fortini indetto da Gianmario Lucini e edito dalla sua nuova casa editrice. E’ una poesia compatta, sapiente e dura. Dura quanto sanno essere le metropoli con la gente che ospitano, immigrati per la maggior parte, contadini inurbati, ora operai, impiegati, una piccola borghesia che non ha più orizzonti, che ha smarrito i sogni di rivincita sociale e/o culturale, molta solitudine, lo squallore delle periferie, con i bar affollati dove l’alcool aiuta a sopportare la proterva fila dei giorni tutti uguali. La metropoli ruba più di quello che non offra: ognuno è chiuso in una solitudine aspra e dolente dove anche i ricordi sbiadiscono e l’identità si assottiglia fino a scomparire quasi e allora si ha bisogno di gesti e comportamenti “forti”, deviati o devianti per recuperare un sé che scolora. L’autore, malgrado il nome non proprio italiano, in realtà viva e lavora in Italia, a Bologna; si occupa di cinema, di musica e di urbanistica, di microcriminalità adolescenziale, di rapporti fra questa e i grandi casermoni urbani, i moderni falansteri. Ne ha scritto su quotidiani e riviste, ne ha parlato per radio. Ovviamente la materia dei suoi interessi intesse questa opera di poesia matura, dove l’ispirazione è sempre sorretta da uno sguardo lucido, ma anche pietoso, sulla moltitudine; infatti la scinde, ne estrae il singolo e sappiamo che l’uno è riconosciuto e riconoscibile, è unico e non assimilabile. Di questo riconoscimento è fatta la pietas di Nader. Il suo dettato scarno, molto vicino al parlato anche per le numerose ellissi, riproduce il linguaggio di coloro di cui parla, scabro, senza o di povera sintassi, povero di parole; le parole di questi inurbati sono quelli della sopravvivenza, di qualche ricordo frastagliato, di un dolore che fatica a chiamarsi tale. Fra le parole che ricorrono più spesso ci sono, ovviamente, città, alcool, caffè, bar. C’è l’illusione dei colti, di coloro che hanno studiato, si sono impegnati e si ritrovano inutili o a fare “letteratura”. Le nostre città che gareggiano a dirsi e a farsi metropolitane, non ne escono troppo bene; tutti i mali sono nei suoi milioni di abitanti, stretti fra esasperazioni, vaghezze di suicidio, incapacità o impossibilità di relazione, pochezze sempre. Fa rimpiangere la provincia questo libro di Nader, le sue piazze pettegole, i gruppetti dei giovani appollaiati sul monumento ai caduti, i bar affollati di vecchi che giocano a carte e di più giovani che parlano di sport o di donne. Ma un poeta si misura sulla tenuta della sua poesia; qui il poeta c’è e tiene saldamente il ritmo e il tono della voce, mai un grido, mai un lamento. La lingua e la parola (in fondo la poesia è parola che si riempie di senso, che contiene una significanza ampia ma condivisibile o proprio per questo condivisibile), dicevo la lingua e la parola si piegano alla signoria del suo dettato e fanno di questa silloge un piccolo capolavoro di poesia.

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