I Cosmonauti

In uscita 5 novembre 2015, Pendragon.

Cover NAder 2:Layout 1Tre racconti ambientati in Italia, in punti introvabili sulla cartina, eppure realmente esistenti.

Un racconto pomeridiano, con un pugno di case lungo un fiume.

Un racconto invernale, con un prete e un comune in bilico tra la strada e la montagna.

Un racconto notturno, ambientato nel ristorante di un albergo con un sindacalista, un talent scout di giovani calciatori, un chirurgo.

Recensione di “I Cosmonauti” di Alex Caselli:

Nell’età delle grandi narrazioni pseudorealistiche e della pretestuosa ricerca di architetture e trame letterarie così posticce da risultare intercambiabili, avere tra le mani un libro di narrativa involontariamente estraneo a estrinseci apriori di contenuto e forma è già di per sé un dato di partenza da salutare con sollievo. Dico involontariamente non a caso, poiché l’autore, il bolognese di padre iraniano Nader Ghazvinizadeh, scrive senza porsi il problema; e non per un presuntuoso elitarismo o una ricattatoria diversità da esibire, ma perché proiettato su altre questioni. I cosmonauti, trittico composto da un racconto lungo, quello eponimo, e due racconti più brevi (Un prete a Ripoli e Medicamenti antichi), non parte da nessun tema preciso, non ha la pretesa di inserirsi in nessuno dei tanti cliché contenutistici e stilistici delle nostre patrie lettere. Non chiede al lettore, in sintesi, giustificazioni preventive al di fuori dal testo. Eppure, se è vero che in nessuna delle tre prove sussiste una trama esplicita e i codici impiegati (il racconto di formazione, il diario) sono utilizzati senza progettualità, non vi è spazio per bamboleggiamenti e dilettantismi. In questa prosa divagante, a tratti ipnotica, costruita su itinerari topografici e psichici imprevedibili come possono essere quelli di un discorso a braccio, ogni parola ha un suo peso specifico. Il punto di arrivo è una pagina sempre viva, fatta di periodi che per levità di tocco e consistenza di pensiero risultano espandibili: sembrano cioè sintetizzare riflessioni più ampie. E, altra ragione di sollievo per chi legge, col suo numero esiguo di pagine questo libro mantiene molto di più di quanto promettano i massicci volumi di narrativa che campeggiano nelle grandi librerie.

Conosco abbastanza da vicino il percorso di questo scrittore (poeta, con due raccolte all’attivo, ma anche sceneggiatore cinematografico) per avvertire e ritrovare radunati qui, senza calcoli, alcuni archetipi a lui cari. Un passo epico in cui la singola frase, la battuta da far recitare, il solo nudo verso o persino un singolo termine (il gusto per la parola erudita, ad esempio), scandiscono una rapsodica volontà di concentrazione e allo stesso tempo di fuga; l’avvicinamento analogico di ambiti senso lontanissimi anche per proporzioni (in una vecchia poesia, la «deriva dei continenti» indicava una separazione tra innamorati); un camuffarsi reciproco di piani tra realtà osservata e immaginata. Dal lato contenutistico, poi, non temi precisi, ma immaginari in cui si mescolano suggestioni plurali: a volte rubate al cinema o persino a certa musica cantautoriale italiana (accadeva nella prima raccolta poetica con più insistenza), altre volte legati a paesaggi. In quest’ultimo caso si tratta di segmenti urbani o più spesso extraurbani (il Polesine, la campagna, l’Appennino) ricostruiti in pochi tratti, ma con la precisione di un plastico e con un acume sociologico singolare (si fa attenzione tanto a cosa pensa di sé chi in un luogo vive quanto a chi quel luogo lo vede da fuori). C’è poi un interesse antropologico e mai scientificamente positivistico o psicologistico per alcuni tipi umani (i cacciatori, i ciclisti, i camionisti…) a cui un microcosmo di abitudini ed esperienze conferisce l’aura mitica che possiede chi pratica non un lavoro, ma un mestiere. Suggestioni che si ritrovano e si mescolano anche in questi racconti, da cui emerge, vera protagonista, la più anonima provincia italiana – e se questa, come avverte la nota editoriale, è rappresentata “senza esotismi”, è forse per l’atmosfera sonnambula, per l’alone già mitico (e dunque non mitizzato) di luoghi ricondotti al loro nome proprio, reale o immaginario. Accanto agli elementi naturali e antropici del paesaggio – che qui vale appunto ben più di un mero sfondo – troviamo elucubrazioni ossessive e tangibili, pensieri così vividi da sembrare espressi ad alta voce. E come accade a certe frasi rimaste nell’aria dopo le serate passate con vecchi amici, il carattere eloquente e strofico di questa prosa fa sì che una volta soli (una volta chiuso il libro) molti periodi restino impressi a lungo nella mente, vengano automaticamente ripensati.

Vediamo allora, con ordine, di entrare nel merito delle tre prove. Nel primo e più lungo racconto, I cosmonauti, ci si trova catapultati in un quartiere posto a ridosso del Po. Qui, nell’immaginaria via del Salto, che per i fondali e per la fissità delle figure ricorda certe atmosfere di Antonioni, crescono e si fanno uomini alcuni amici. Il narratore ripercorre in brevi paragrafi le tappe della sua crescita e formazione tra botteghe, casali, centri diurni, hashish e incontri coi marxisti. Le relazioni tra i maschi e poi quelle tra i maschi e le femmine del quartiere sono descritte con la lucidità maniaca di dettagli che diventano simbolici o con la rapsodica precisione di appunti presi dallo stesso narratore in media res. Il periodare è assertivo e interlocutorio allo stesso tempo, le proposizioni sono spesso coordinate per asindeto, a marcare una rapidità di pensiero che coincide con il continuo ruminare interiore del protagonista e con il mutare dei dati esterni. La parabola astorica del racconto favorisce una ricerca antropologica giocata tanto sull’accumulazione di dettagli quanto su una loro possibile interpretazione teorica: doppio registro, questo, in cui l’aura mitica del racconto si associa al tentativo ossessivo di razionalizzare l’informe vita in atto, sfuggente a un significato univoco. Se si fa uso poi di epiteti dal sapore omerico (le materie scolastiche diventano le «materie dai bei nomi») ciò non toglie che ci troviamo in uno scenario di introspezione e in un racconto di formazione che, nonostante il montaggio a posteriori, riesce a conservare la freschezza della prima impressione – proprio come accade in una pellicola cinematografica.

Il secondo e bellissimo racconto, Un prete a Ripoli, è invece il diario di un sacerdote ligure che prende possesso della sua parrocchia nell’appennino bolognese. In questo luogo di transito, dove non può esistere vera comunità, a meno che la concitazione che scaturisce da un pericolo non raduni gli uomini (e se nel primo racconto la catastrofe incombente era l’esondazione, qui, in modo allucinato e inconscio ci si immagina forse una rivolta della montagna agli artifici dell’uomo), si accumulano gli scarni appunti e programmi del prete forestiero. Se per analogia o si direbbe assonanza (l’appennino emiliano, la figura di un sacerdote, la mancanza di una vera e propria trama, il procedimento ellittico), il racconto ricorda Case d’altri di Silvio D’Arzo, al periodare cadenzato dell’opera darziana fa qui da contraltare una prosa asciutta, attenta ai dettagli fisici del paesaggio quanto a quelli psichici del narratore. Predominano i “non”, soprattutto nella parte iniziale del racconto, a segnare l’estraneità del protagonista alle geometrie dei luoghi e dei volti. Ciò che incuriosisce è anche una certa tenerezza di tono, una timidezza curiale esaltata e restituita per contrasto dalle asperità di un territorio solo parzialmente domato.

In Medicamenti antichi, che chiude il trittico del libro, ci troviamo in un simposio quasi kunderiano. Una volta presentata la scena con il linguaggio asettico di una sceneggiatura e a impalcatura narrativa esposta, i tre personaggi, invece di scambiarsi battute tra loro, restano prigionieri dell’irrealtà dei loro pensieri, delle loro argomentazioni. Ecco allora presentati l’osservatore di calciatori, il chirurgo e il sindacalista, che a tratti è il narratore. Possiamo notare come il mestiere svolto dai protagonisti, di questo e degli altri due racconti, abbia a che fare, apertamente o trasversalmente, con la gestione delle “risorse umane”. Il regista del primo ed eponimo racconto (in cui non è da trascurare il marginale personaggio del direttore d’orchestra), il prete del secondo e i tre di quest’ultimo, in modalità diverse hanno a che fare con gli esseri umani: con la loro gestione, con la loro cura (nell’anima, nel fisico e nei diritti), con la loro selezione.

Il paesaggio ha poi il sapore anonimo della provincia che non si abita ma in cui ci si trova a sostare. Dei tre racconti è questo il più sospeso: l’ambientazione notturna, il luogo di transito, le partite ai videogiochi tentate dal chirurgo per lasciarsi andare al sonno, tutto suggerisce un’atmosfera di associazioni imprevedibili, dominate parzialmente, anche qui, da tentativi di razionalizzazione che sembrano più gli esorcismi di un ipocondriaco.

Come si è tentato di dire, questo libro di Ghazvinizadeh, uscito per l’editore Pendragon nell’eterogenea collana I chiodi, splendidamente curata da Matteo Marchesini, è molto lontano da tante delle traiettorie della nostra letteratura contemporanea. E se è pur vero che originalità e non perfetto allineamento con lo Spirito del tempo non sono di per sé garanzia di riuscita, nella letteratura come in altro, va pur detto che le personali parabole di questo autore hanno la forza necessaria per restare a lungo impresse nel lettore: sia per le atmosfere, evocate con naturalezza, sia per contenuti che ci si trova per molto tempo a rimeditare.

 

Recensione di Marco Girella, “I Cosmonauti dei non luoghi”:

Davvero un esordio narrativo importante quello di Nader Ghazvinizadeh con con “I Cosmonauti”, edito da Pendragon, abbandona gli amati versi per cimentarsi nella narrativa. Tre racconti brevi in un un libro breve, che però chiede ai lettori attenzione e complicità assoluta per muoversi insieme ai personaggi tra le golene dell’Alto Monferrato, l’appennino bolognese e il litorale laziale. Tre non luoghi che il lettore riesce a immaginare soprattutto attraverso i pensieri, molto più che gli occhi, dei protagonisti. Lo sguardo di Ghazvinizadeh è assolutamente letterario e poco portato a costruire immagini. Assomiglia, in certi tratti, a quello di Gianni Celati senza l’umorismo e gli slanci picareschi di Celati. Però è simile la sfasatura dei personaggi rispetto alle loro stesse vite, quel modo di guardare a sé come a degli estranei. Uno sguardo che si allontana dai luoghi dell’infanzia e non riesce a fare propri i luoghi dell’età adulta. Preti, calciatori, medici, sindacalisti si muovono nel vuoto attorno a loro e si sforzano inutilmente di riempirlo. Non ci sono trame e storie e opportunità da inseguire. Si annaspa nella solitudine, si cerca di darle un senso, si rinuncia a farlo, cogliendo l’inutilità dello sforzo. Eppure c’è un filo sottile che tiene insieme tutto quanto, che lega il parroco di Ripoli, quando scrive sul diario “nulla da segnalare a me stesso”, con l’osservatore di una squadra di calcio che cammina di notte fino al mare e non riesce a vederlo. E’ il filo della scrittura che denota abilità, cura, attenzione per la lingua. I cosmonauti riportano all’universo poetico di Michelangelo Antonioni e Tonino Guerra (che arrivò al cinema e alla narrativa partendo dalla poesia in dialetto). Se avessero un corrispettivo cinematografico sarebbe “Deserto Rosso”, perché la difficoltà di parlare, vedere e capire è quella che proviamo tutti i giorni quando ci sentiamo inadeguati al mondo che ci circonda. Un sentimento che Ghazvinizadeh indaga con l’abilità letteraria di un chirurgo dell’anima.