di Matteo Marchesini, “Il Foglio”, 13 luglio 2011
Triste destino pubblico, quello dei giovani poeti rimasti fuori dai canoni editoriali. Alle presentazioni deserte, perfino i librai li fissano con occhi da impaziente ufficiale giudiziario. Come convincere la gente che sono scrittori anche loro come i romanzieri, e che viceversa anche i romanzieri si cimentano con un genere letterario ormai postumo a se stesso? Forse basterebbe usare una perifrasi, chiamare i poeti “scrittori in versi”. Ne segnalo due, più interessanti di molti coetanei prosatori. Le loro raccolte non hanno distribuzione: e del resto, oggi la migliore poesia arriva spesso al lettore “brevi manu”.
Fabrizio Bajec, classe 1975, è cresciuto a Viterbo, ma in famiglia parla francese. Ora è emigrato a Parigi per ritrovare la lingua madre: e in “Entrare nel vuoto” (edizioni Confine) il trasloco si sente. Prima Bajec oscillava tra un postermetismo perentorio alla De Angelis e una forma slabbrata, confessionale. I versi francesi, poi tradotti in italiano, ricuciono questo iato in uno stile asettico e sottilmente estraneo a entrambe le lingue, dove il ritmo alimenta il senso come un ronzio subliminale. Anche quando compone una ballata impiegatizia “tra la corda e il gas”, Bajec ottiene una furia composta, monocorde: è il surrealismo quieto, la riflessione appena slogata di cui dice il prefatore Zuccato. In “Entrare nel vuoto” scorrono bonzi e corvi, ebrei e scacchisti del quartiere latino, una Senna confusa col Gange, e un continuo chiacchiericcio di voci sconce ma impassibili. La civiltà è ridotta a una natura allegorica e feroce, che “non conosce la giustizia ma la esercita”. Bajec finge di allineare meri fatti, con un oggettivismo che ricorda a volte un altro giovane poeta emigrato, Federico Italiano. La precarietà economica, la violenza e la cultura metropolitana sono per lui materie piatte da metter sotto vetro, come in Antonioni. C’è un dramma, dietro questi finti idillii: una diaspora familiare allusa nel mito di Telemaco. Ma il libro parte dal tentativo di elaborarne il lutto in modo zen, aprendosi “alla gran/paura di non essere personali/autorevoli autori di qualcosa”. Tentativo di spoliazione ambiguo, se “L’abbandono era una folle tattica/per non perdere il gusto del mondo (…) La rinuncia, la più vecchia trovata/per sentire il mare della compassione”. In verità, non serve prender voti orientali: la freddezza occidentale è più forte. E infatti la musa di Bajec, anche nel dolore, resta l’indifferenza.
Diverso il caso di Nader Ghazvinizadeh, figlio di un iraniano sfuggito ai khomeinisti, ma nato nel ’77 a Bologna e padano quant’altri mai. In Metropoli (edizioni CFR) l’immaginario di un novecento euroamericano tutto cinema e jazz è immerso nella grana grossa della provincia italiana. Da una parte c’è il mito di un’eleganza fitzgeraldiana, di un galateo del congedo: “finì come un’avventura, la letteratura”; “c’era il tabacco, c’era il vino torbido (…) han lasciato tutto com’era / immensa la cultura degli abiti da sera. Dall’altra parte si stende una terra di osti e cattedrali simili a relitti in secca, di municipi “arcani come carri armati” e di “decumane gelate come spiagge”. Tra i due fronti, Ghazvinizadeh lavora su sceneggiature da short cut, gioca tra contrazione e allungamento di versi-sequenze che giustappongono senza suture luoghi e storie lontanissimi. In questo beat concettuale ogni riga è una partitura a sé, e veicola una precisa intuizione antropologica: “abbiamo i vigneti per vocazione e le piazze come radici”, “il mare prosegue l’idea di pianura”. La musa di Ghazvinizadeh è la nostalgia per vite ed epoche che non ha vissuto, e che vede proiettarsi nel silenzioso spazio mentale di un vecchio Odeon dove tutto è già girato, dove si può solo far scorrere la bobina avanti o indietro. Ma lo spleen è riscattato dalla gioia della catalogazione: e versi come “fluida l’infelicità nelle plance della città” fanno pensare a un Govoni rinato dopo il pop.